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Disabili per nascita o per destino? La rivincita e' nel cervello

MILANO. E’ più facile accettare la propria condizione per chi nasce o per chi diventa persona con disabilità? Questo era il quesito che si poneva Anna Gioria nel post di ieri. Forse la paura di far diventare la questione un puro gioco di stile o di dare una risposta salomonica mi frena un po’. Io, al contrario di Anna, sono diventato disabile per mano, o per il piede, di un pirata della strada che non ha frenato in tempo. E, ancora oggi, non so chi debba ringraziare del “regalo” di una comoda esistenza in poltrona. Con una battuta ironica direi viaggio in prima classe comodamente seduto. E di conseguenza alle difficoltà di una vita da persona seduta si aggiunge una rabbia ancora forse poco espressa.

Un sentimento che ritrovo sia in chi vive questa condizione per un trauma o una malattia sia in coloro che l’hanno subita fin dalla nascita. Chi ce l’ha con il medico incompetente, chi con il destino che ho scelto lui piuttosto che un altro per portare questo fardello, chi incolpa la genetica, l’inquinamento… e se volete metteteci pure Chernobyl e la diossina di Seveso. Si cerca sempre un colpevole in un processo catartico, come se dare la colpa a qualcuno alleggerisse il peso. E’ questo un minimo fattore comune delle persone con disabilità. Mi resta il dubbio che non si possa mai accettare completamente questa condizione. L’altro, il “normodotato” è sotto gli occhi di tutti noi e la domanda perché proprio a me? è la più naturale risposta all’evidente differenza.

Non credo quindi che sia una questione di nascere o diventar disabili. E’ invece un mix di fattori che partono dal proprio carattere e finiscono con l’ambiente che ci circonda. Forse è la continua sfida con se stessi che consente ad alcune persone di reagire più rapidamente. Oppure quell’incredibile voglia di rivincita che leggo in tanti volti di persone di cui abbiamo parlato in questo blog. In primis Franco Bomprezzi e il suo “parlar d’amore. Oppure Antonella Ferrari, Pietro Scidurlo, Simona Atzori e i mille altri compagni di viaggio di questa iniziativa.

Ma la resilienza, parola di moda per indicare la capacità di superare un trauma e uscirne più forti, è figlia delle possibilità che la società offre. Se posso vivere la mia esistenza con dignità, lavorare, socializzare, amare, crearmi una famiglia sicuramente reagirò, e sopporterò, meglio rispetto a chi è prigioniero a casa propria. Se ho una famiglia che mi aiuta a trovare la mia strada avrò più forza per risollevarmi prima rispetto a chi è attorniato da persone che con atteggiamento sì amoroso, ma talvolta troppo pietistico, si chiude in un bozzolo di autocommiserazione. No non è una questione di nascita o di destino. La differenza sta forse in un piccolo gesto, c’è chi come me e Anna si mette le scarpe da tennis – con ironia – per visitare l’Expo e chi dice, non ci vado perché è troppo complesso e “sicuramente” non è accessibile.

Fonte
Simone Fanti  - Press IN